Altri ragazzi caduti in una guerra che non è nostra

Ieri 9 ottobre altri quattro militari italiani sono caduti in Afghanistan: Gianmarco Manca di trentadue anni,  Francesco Vannozzi di ventisei anni, Sebastiano Ville di ventisette anni  e Marco Pedone di ventitré anni, tutti graduati.  Nello stesso attacco è rimasto ferito il graduato Luca Cornacchia di trentuno anni, al quale va l’augurio di una pronta guarigione. È triste, a pochi giorni soltanto dalla morte di Alessandro Romani, trovarsi a onorare la memoria di altri ragazzi italiani uccisi laggiù.
Troppi insistono nel nostro paese a definire la spedizione in Afghanistan una “missione di pace”, per primi quei politicanti ipocriti, di “destra” come di “sinistra” che sgomitano senza vergogna gareggiando in servilismo verso Washington salvo condolersi quando dei bravi Italiani tornano a casa in una bara. In altri paesi impegnati, se non altro, il conflitto afghano viene chiamato col suo nome: guerra.
La guerra e specialmente quella moderna, come la storia insegna, è sempre un orrore e uno schifo: un impero del caos dominato, oltre che da una violenza cieca, dalla menzogna e dall’arbitrio, dove sono spesso i puri a cadere, dove non esiste morte bella ed eroica, dove si massacrano innocenti e si consumano ingiustizie e sopraffazioni.
Penso però, diversamente dai pacifisti, che qualche volta la guerra, in mancanza di altri mezzi, s’imponga come una terribile necessità: quando veramente essa si rivolga contro la tirannia, quando veramente debbano essere protetti irrinunciabili valori morali, quando veramente la esiga l’onore di un popolo per la difesa o la liberazione della propria terra.
Non l’Europa, né l’Italia ove la si voglia considerare a sé, potrebbero trovare ragioni siffatte a giustificazione dell’impegno militare in Afghanistan dove, coi soldi presi dalle tasche dei propri cittadini e, assai prima di questo, col sangue dei propri soldati, esse partecipano in rango subordinato alla difesa di interessi non loro.
Volendo anche scendere sul piano meramente giuridico, l’invocazione dell’11 settembre come casus foederis sarebbe non meno che strumentale. Gli Stati Uniti coltivarono, proprio in Afghanistan e in proiezione antisovietica, la malapianta del fanatismo islamico. Ancora essi, scelleratamente persistendo a mantenere un focolaio destabilizzante nel vicino oriente, spinsero la  propria creatura a rivoltarglisi contro. L’attacco esecrabile dell’11 settembre, che nove anni fa costituì l’elemento scatenante del conflitto, non fu portato contro un paese europeo, mentre gli attacchi terroristici che colpirono l’Europa vennero dopo che i governi di alcuni paesi si erano uniti alla guerra di Washington. Né i massacri di innocenti civili afghani ripetutisi in questi anni trovano giustificazione nella strage dell’11 settembre, o in altre. L’Afghanistan, di contro, è sprofondato in un pantano di tipo vietnamita dal quale uscire con una “pace onorevole” sembra per gli Stati Uniti non affatto semplice.
Il regime infido e corrotto a capo del quale fu collocato l’impresentabile Karzai tratta coi Taliban, che evidentemente sono ritenuti terroristi a giorni alterni, per salvare la pelle. In attesa che manigoldi e ribaldi si accordino possibilmente tra loro, con buona pace dei “diritti universali” glorificati dalla propaganda occidentale, i nostri ragazzi muoiono. Per quale patria si chiede a essi di dare la vita?
Al cordoglio per i caduti s’accompagna purtroppo l’insopprimibile ripulsione suscitata da qualcuno che mistificando il sentimento di oggi sembra persino puntare a un’intensificazione dell’impegno militare italiano in Afghanistan. Grazie in anticipo per i prossimi caduti.
MS

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