Contemporaneamente la divisione mondiale del lavoro consente forme sempre più esasperate e ricattatorie di dumping sociale per cui alla c.d. delocalizzazione delle attività produttive (tipicamente, così la Cina sottoposta a una mafia rossa è divenuta un immenso Sweat Shop globale) fa da contraltare, sempre più evidentemente, la cinesizzazione globalizzante delle condizioni economiche e di lavoro nei paesi dove, accampando a pretesto l’inderogabile necessità di fronteggiare una competizione d’affari ineluttabilmente globale, oltre a favorire massicce iniezioni di manodopera immigrante per abbassare i prezzi sul cosiddetto “mercato del lavoro” s’introducono, con l’ausilio di legislatori compiacenti o controllati o comprati, normative di sostegno a varie forme di neoschiavismo che da criptiche si fanno conclamate.
Quella che pomposamente e spudoratamente spesso è definita “Deregulation”, e che nella logica del darwinismo sociale dovrebbe applicarsi tanto ai cosiddetti mercati finanziari quanto, all’altro capo di un lungo fil rouge, ai rapporti di lavoro dipendente (intendendo per tali quelli che indipendentemente dal nomen iuris integrino una subordinazione effettiva del prestatore al datore), altro non è che la paludata manifestazione di un Faustrecht primordiale da senzalegge e che dunque lede in radice lo stesso valore essenziale di libertà. In una società organizzata infatti, come acutamente osservava John Locke, dove non c’è Legge non c’è libertà.
6) A una tal concezione, per quanto più da presso ci riguarda, possonsi evidentemente ascrivere l’aggressione tutta ideologica al pubblico impiego e più in generale ai pubblici servizi che soddisfano bisogni collettivi essenziali (dall’acqua alla scuola alla sanità), la truffa legalizzata che viene perpetrata con la continuativa manomissione del sistema pensionistico e l’ausiliario favoreggiamento delle forme privatistiche, la destrutturazione del rapporto di lavoro (stage che mascherano lavoro gratuito, parasubordinazioni e prestazioni “professionali” patentemente fittizie, precariato infinito et cetera) della quale prime vittime sono le nuove generazioni, cui viene così preclusa la possibilità di coltivare progetti autentici di vita.
Tutt’altra cosa sarebbe costituire forme socialmente decorose di elasticità del rapporto di lavoro, soprattutto nella fase d’ingresso, che potrebbero essere compatibili, in particolare, con specializzazioni e funzioni lavorative nuove sia nel contenuto che nelle modalità di svolgimento. Ma non è questo, evidentemente, ciò a cui si mira, bensì a un rivolgimento radicale, di portata eversiva, dell’ordine sociale esistente, in virtù del quale una ristretta cerchia di oligarchi pervenga a dominare una massa inebetita e prostrata di animali da lavoro. Ciò può essere compiutamente realizzato, però, sotto condizione che la relativa ideologia di supporto progressivamente assurga al rango effettivo di pensée totalitaire, e di tale processo si dà carico una comunicazione di massa truccata e ben pianificata, che opera coi tipici e ormai sofisticati metodi della persuasione occulta. Per esempio la spettacolarizzazione degli eventi condotta a forme estreme che stuzzichino morbosità latenti; la devastazione culturale portata da “prodotti” che rincorrono gli istinti più grossolani agli antipodi di ogni finalità didattica; la manipolazione delle menti attraverso l’imposizione reiterata di ginnastiche dell’obbedienza e di controlli eterofinalizzati (tipicamente sotto il pretesto della “sicurezza”); l’induzione di mistificanti sogni-lotteria che menano alla rassegnazione collettiva alimentando l’illusione da furbetti straccioni che ci si possa arrangiare in proprio; quant’altro serva allo scopo strategico di rimuovere preventivamente dal corpo sociale l’idea – suggerita dall’osservazione e dall’esperienza dei semplici fatti – che nel sistema del liberismo totalitario a dominare siano, irrimediabilmente, la miseria e la disperazione.
MS
(continua – la prima, la seconda, la terza, la quarta e la quinta parte sono rispettivamente del 25, del 26, del 27, del 28 e del 29 dicembre 2010)
“Un diritto primordiale”
Durante la recente udienza concessa al corpo diplomatico accreditato in Città del Vaticano Benedetto XVI, tra le altre cose, ha definito “preoccupante” che il “servizio che le comunità religiose offrono a tutta la società, in particolare per l’educazione delle giovani generazioni, sia compromesso od ostacolato da progetti di legge che rischiano di creare una sorta di monopolio statale in materia scolastica, come si constata ad esempio in certi Paesi dell’America Latina” e ha quindi esortato tutti i governi “a promuovere sistemi educativi che rispettino il diritto primordiale delle famiglie a decidere circa l’educazione dei figli e che si ispirino al principio di sussidiarietà, fondamentale per organizzare una società giusta”.
Personalmente, da esterno e nulla contando, non disistimo Benedetto XVI. Mi sembrerebbe illogico e sciocco, inoltre, pretendere che il capo di una confessione religiosa pieghi nei diversi temi le proprie posizioni istituzionali all’opinione prediletta da questi o da quelli, quasi si potesse tirarlo per la veste da una parte o dall’altra: il papa fa il papa, non altro. E mi pare che questo papa, circa i molteplici problemi della società umana così com’è oggi, non infrequentemente veda chiaro.
È con un certo rammarico quindi che mi sento in obbligo di riprendere, criticamente, quella sua affermazione circa il “diritto primordiale”.
Secondo il dizionario della lingua italiana curato da Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli l’aggettivo “primordiale” significa “riferibile a un periodo iniziale od originario: il progetto è ancora allo stato primordiale; la fase primordiale di una civiltà”. E d’altra parte l’erudizione e la sapienza di Joseph Ratzinger sono tali da rendere impensabile che egli possa proferire parole a caso, o per errore.
Vero è che l’istruzione dei più giovani da secoli riveste, nelle molteplici sensibilità della confessione cattolica apostolica romana, una grandissima importanza. Guardando ai corsi storici vien da osservare che ciò, forse, non è tanto riferibile all’affermazione densa di spiritualità riportata in Matteo (19-14) “Lasciate che i bambini vengano a me, perché di questi è il regno dei cieli” ma piuttosto a quella di quasi cinquecento anni fa, attribuita al cofondatore dei gesuiti Francisco Xavier “Datemi un bambino di sette anni e vi mostrerò l’uomo”, evocatrice di una Chiesa governante e perciò attenta a preservare i fondamenti culturali dai quali trae potere.
Talora, nonostante la teologia cattolica integri elementi sofisticati, tale preservazione non ha scontato troppi scrupoli intellettuali salvo ripensamenti a posteriori (uno per tutti, il caso Galileo). E taluni aspetti cultuali e rituali ancor oggi in auge, ai quali si indirizza la massa non acculturatissima dei fedeli, sembrano rimandare a pratiche ancestrali che per i presupposti magici ed emotivi comunemente si ascrivono alla superstizione. Sarebbe tuttavia ingenuo pensare che, pur sotto il pontificato di un teologo colto e raffinato, che più volte ha evocato un nesso tra “fede” e “ragione”, le componenti primordiali nei loro svariati aspetti possano essere improvvisamente bandite dal cattolicesimo apostolico romano.
Nondimeno ciò che viene definito, ancorché da fonte assai autorevole, “un diritto primordiale” (posto che effettivamente si tratti di un “diritto”), irrimediabilmente rimanda a quella fase storica, iniziale od originaria, nella quale l’istituzione familiare si fondava su presupposti (e.g., il potere di vita e di morte esercitato dal pater familias sui figli proprio come sugli schiavi) che nel corso dei secoli il sopravvenire di motivazioni culturali più complesse ha bandito. D’altro canto le società umane sono venute organizzandosi, nel processo storico, in forme sociali sempre più complesse fino a quella, piaccia o meno, dello Stato moderno in quanto soggetto regolatore delle relazioni interumane. Esso da alcuni secoli a questa parte ha sviluppato una caratteristica di neutralità – quindi tendenzialmente di equanimità – rispetto ai convincimenti religiosi dei suoi diversi componenti. Con tanto, il ruolo della religione come elemento fondativo dell’identità comunitaria è sostanzialmente cessato ed essa è stata restituita, o avrebbe dovuto esserlo, a quella sfera della spiritualità che dovrebbe esserle propria: non una diminutio ma al contrario una riforma, cioè un ripristino della sua forma naturale non più zavorrata dalla funzione politica di instrumentum regni.
Conseguentemente l’educazione collettiva è appunto pertinenza dello Stato, che deve assicurarla in forma neutra e uguale per tutti.
Ove poi, nella sfera privata, alcuni desiderino crescere i figli in una particolare religione, non potranno esserne impediti né per Legge né di fatto. Ma trattasi di un piano ben distinto, che può semmai essere complementare all’altro. L’educazione, in quanto percorso di inserimento delle nuove generazioni in una società che per la sua complessità non può recare l’impronta egemonica di una religione “autentica” socialmente privilegiata nella cura dell’utilità collettiva, non può essere che civile: pubblica e istituzionale.
Pretendere il contrario, l’osservo col dovuto rispetto per Benedetto XVI che non cesso di stimare nel suo ruolo, risulterebbe in una forma d’integralismo, anch’essa primordiale, che come ogni manifestazione d’intolleranza egemonica sarebbe inaccettabile in radice.
MS