L’anno si chiude con un altro caduto

Ancora un soldato italiano è stato ucciso oggi in Afghanistan.
Matteo Miotto da Thiene (VI), graduato nel 7° reggimento alpini di Belluno, è caduto oggi colpito da lontano, forse da un tiratore scelto, all’interno della base di Buji nel sudovest del paese mentre era di guardia. È il tredicesimo caduto italiano in Afghanistan nel 2010 e il trentacinquesimo di tutta la spedizione, iniziata nel 2004.
Un saluto alla memoria di quest’altro giovane caduto nell’adempimento del dovere in una missione militare che non avrebbe mai dovuto avere luogo, voluta da politicanti asserviti non certo per mantenere l’onore della patria ma per compiacere il padrone di Washington contro gli stessi interessi strategici dell’Europa.
Le ripetitive, stucchevoli parole di circostanza che costoro pronunciano, comodamente e ben al sicuro, ogniqualvolta qualcuno dei ragazzi che essi stessi hanno mandato a rischiare la vita cade sul campo di battaglia, suonano false e ipocrite a un numero sempre maggiore di coloro che le ricevono. Né saranno certamente esse a poter assolvere quei politicanti impostori dalle pesanti responsabilità che personalmente ognuno di loro si è assunto.
Onore ai caduti, infamia a chi li ha inutilmente mandati a morire.
MS

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Wikirebels 3/3 – Caccia al soldato Assange (Wikileaks: il documentario)

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Wikirebels 2/3 – Iraq, guerra e altri orrori (Wikileaks: il documentario)

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Wikirebels 1/3 – La nascita dei wiki-ribelli (Wikileaks: il documentario)

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Un patto scellerato – parte quinta

Con una prima mossa, peraltro non ancora portata a totale compimento, il globalismo mercatista ha mirato alla demolizione del modello tipicamente europeo del “Welfare State” onde trasferire al grande capitale (vedi “privatizzazioni”, etc.), e nel più lungo termine a quello di speculazione finanziaria, le ingenti risorse frutto dell’esproprio.
L’apparato propagandistico messo in campo all’uopo, per il lavaggio collettivo del cervello verosimilmente più vasto di tutta la storia umana conosciuta, si è potuto avvalere del controllo quasi incontrastato di mezzi di comunicazione di massa dotati ormai di una formidabile potenza. Ciò ha consentito una manipolazione pianificata e sistemica dell’informazione, attuata in forme anche assai raffinate, fino all’inoculazione di slittamenti semantici pervasivi – per esempio col chiamare “riforme” la manomissione reazionaria delle normative e prerogative sociali, “moderazione” un tale forsennato attacco ai livelli di vita dei popoli e “rivoluzione liberale” l’involuzione socialdarwinista correlata – che è risultata essere un metodo oltremodo efficace di devastazione culturale e di abbrutimento degli spiriti, fino al punto di rendere perpetrabile l’ecumenica rapina in corso con il sostanziale, ancorché viziato, consenso dei rapinati. Il c.d. American Dream (rectius: American Nightmare), per esemplificare, è un ottimo oppiaceo che induce a una rassegnata apatia sociale di massa mediante l’abile coltivazione dell’illusione stessa, come se un mercato “libero” esistesse davvero; dall’altra parte la corruzione morale e materiale di buona parte almeno dei politicanti – spesso ridotti a semplici burattini, legislatori o esecutori – ben completa l’opera.
Con una mossa ulteriore, in pieno svolgimento, il globalismo mercatista ha spinto alla finanziarizzazione interdipendente delle economie primarie, fino ai parossismi apparentemente demenziali che innescarono l’attuale crisi, in un quadro di divisione mondiale del lavoro ove ad alcuni grandi paesi “in via di sviluppo” toccava il ruolo – accettato molto di buon grado – di opifici generali.
Perseguire l’obiettivo della rendita finanziaria – senza alcun nesso relazionale tra la ricchezza fittizia così rappresentata e quella effettiva, tangibile, esigibile a livello planetario – riduce il reddito da lavoro, e non solo da lavoro subordinato, a valore essenzialmente residuale: le grandi attività produttive, d’altronde, più non si gestiscono in funzione della prospettiva industriale d’impresa ma sempre più spesso con riguardo ai profitti finanziari che possonsi trarne, per esempio manovrando onde accrescere il valore delle azioni. Esemplare, quasi dieci anni fa, fu il caso Danone, un’impresa globale che realizzava buoni profitti e che per ingrassare ulteriormente gli investitori azionisti attuò una massiccia riduzione del personale: il prezzo del titolo lievitò ma l’impresa fu oggetto di un combattivo boicottaggio globale che intelligentemente molto si avvalse anche della Internet con buon esito.
Il ruolo più deleterio nella dilagante finanza speculativa, però, spetta forse a molti di quei soggetti “istituzionali” (fondi pensione, fondi di investimento, società assicurative, banche d’affari, gestori del risparmio, etc.) i quali, usando denaro non proprio, spesso ricorrono a strategie spregiudicate – sia in quanto all’impatto sociale sia in quanto ai rischi assunti, magari ricorrendo a particolari strumenti operativi – allo scopo di massimizzare nel più breve tempo possibile i profitti e quindi i correlati compensi degli amministratori. Di questa infida galassia Luciano Gallino ha presentato un’interessante panoramica nel suo recente libro “Con i soldi degli altri”, pubblicato da Einaudi nel 2009.
MS
(continua – la prima, la seconda, la terza e la quarta parte sono del 25, del 26, del 27 e del 28 dicembre 2010)

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Un patto scellerato – parte quarta

Negli anni ’70 del secolo passato, all’apice di un processo redistributivo pluridecennale che aveva attraversato la stessa guerra, la ricchezza nell’occidente capitalistico era distribuita, lungo la scala sociale, con migliore equilibrio che in qualunque altro momento storico. In Scandinavia si ipotizzavano soluzioni ardite di redistribuzione ancora più avanzata (e.g. la tassazione negativa).
La reazione liberista degli anni ’80, precorritrice di globalizzazione e mondialismo, pervenì ad arrestare e a capovolgere quella tendenza generando con crescente impeto, dalla monopartizione del pianeta prodottasi dopo il collasso del sistema sovietico in avanti, i fenomeni di aberrazione economica, culturale e sociale oggi in essere.
Son trascorsi pochi giorni dalla presentazione del nuovo rapporto di Bankitalia “La ricchezza delle famiglie italiane”, scaricabile qui in formato pdf, che tra le altre cose, analizzando la distribuzione della ricchezza netta nel paese nel corso del decennio 1998-2008 (tavola 4A del documento), indica come la relativa percentuale complessivamente detenuta dal 10% delle famiglie più facoltose oscillasse in un intervallo compreso tra il 42,9% minimo del 2004 e il 47,5% massimo del 2000, mentre il 50% delle famiglie più povere, nello stesso periodo, complessivamente ne godevano in una misura variabile tra il 9,3% minimo del 1998 e il 10,1% massimo del 2004: una sostanziale stabilizzazione al negativo di una sperequazione grave, alla quale risulta affatto indifferente l’avvicendarsi, nel periodo dato, di coalizioni differenti al governo – coalizioni tra le quali, evidentemente, le differenze rispettive anche nel campo delle politiche socioeconomiche potevano risultare fors’anche importanti, a volte, ma non già essenziali. Va tenuto conto, per una migliore lettura dei dati succitati, che nello stesso documento si stima (tavola 1A) una ricchezza netta per famiglia che per il decennio preso in considerazione passa, a prezzi costanti 2009, dalla media nazionale di 334.950 euro nel 1998 a quella di 356.116 euro nel 2008, con un forte calo tra il 2007 e il 2008.
Questa situazione, esemplificata nella citazione del rapporto di Bankitalia ma attestata in ogni rilevazione statistica dotata di un fondamento minimamente serio, evidenzia l’epocale trasferimento di risorse disponibili avvenuto come già accennato nell’ultimo trentennio tra capitale e lavoro (lo schema non sarebbe invero così semplicistico, ma così può essere riassunto in una battuta). Su questo tema un certo documentato approfondimento è stato effettuato da Marco Panara nel suo recente saggio “La malattia dell’occidente”, uscito per Laterza nel 2010.
MS
(continua – la prima, la seconda e la terza parte sono del 25, del 26 e del 27 dicembre 2010)

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Un patto scellerato – parte terza

Va sottolineato qui che l’art. 39 della Costituzione, laddove stabilisce che i sindacati liberamente costituiti siano registrati, e sotto condizione che i relativi statuti “sanciscano un ordinamento interno a base democratica”, è tuttora inapplicato non solo – com’è ben evidente – per gli aspetti formali, ma anche – quel che risulta decisivo – in quelli sostanziali.
Non è infatti praticata né prevista alcuna modalità di accertamento oggettivo della reale consistenza democratica (sistema di affiliazione, quote di tesseramento, modalità di  espressione del pensiero e di formazione del consenso, procedure di designazione degli organismi, etc.), né della effettiva correttezza dei rispettivi conti economici e bilanci, nemmeno per quelle associazioni sindacali che, data la maggiore importanza, sono parte considerevole della politica nazionale.
Per trattarsi di associazioni che già ora, assai impropriamente, svolgono funzioni parapubblicistiche e che nell’impostazione ideologica del sig. Sacconi ancor più dovrebbero svolgerne, con attribuzione diretta o indiretta di risorse finanziarie e potere concorrente o autonomo di spesa delle stesse, la trasparenza lascia alquanto a desiderare. Non sarà per caso se i papaveri sindacali, soprattutto i rappresentanti delle associazioni organizzativamente più deboli tra le maggiori e che dunque di risorse esterne maggiormente abbisognano per mantenersi, strillano indignate proteste di lesa autonomia ogni volta che appena si affacci l’ipotesi di una regolamentazione, qualechessia, delle attività che istituzionalmente le associazioni rispettive dovrebbero svolgere.
Per farsi un’idea generale delle prebende e del potere diramato in infinite nicchie, fuori dalle sedi tipiche della contrattazione, di cui oggi godono le maggiori associazioni sindacali nel paese e che spesso sono appannaggio di apparati burocratici pletorici e autoreferenziali, un’interessante lettura   è offerta dal breve saggio d’inchiesta, pur a volte impreciso, “L’altra casta”, pubblicato dal giornalista Stefano Livadiotti per Bompiani nel 2008.
Dunque, la questione della libera, autonoma rappresentanza sindacale ai diversi livelli, legittimata dal consenso effettivo degli associati in applicazione dell’art. 39 della Costituzione (già trattata su questo sito nell’intervento intitolato “Difetto di legislazione” le cui tre parti finora pubblicate risalgono ai giorni 3, 5 e 11 settembre scorso) e che finora, volutamente, non mai è stata regolamentata, oggi si presenta con ancor maggiore fondamento e urgenza. Non che appaia verosimile, nel breve, il suo scioglimento in soluzioni concrete, ma ciò testimonia quasi icasticamente le contraddizioni incomponibili, mascherate a malapena grazie alle manipolazioni operate dalla comunicazione di massa, di un sistema che della democrazia, ancorché in ingannevoli forme rappresentative, ha fatto solo il suo mantra propagandistico quotidiano nel momento in cui sempre più sistematicamente la conculca in essenza.
5) Il globalismo mercatista, che secondo il mendace paradigma dello sviluppo a crescita illimitata e i suoi banditori ed encomiasti infami avrebbe dovuto recare benessere all’universo mondo, per quanto riguarda l’Europa – che è quanto ci interessa – risulta sempre più evidentemente in una dinamica di pesante arretramento sociale, di immiserimento generalizzato di una estesa fascia di popolazione, di caduta delle prospettive e delle speranze esistenziali delle nuove generazioni. La povertà assoluta o apparente si riduce al punto in cui, emblematicamente e non già per caso, anche mendicanti e clandestini possono spesso disporre di un telefono mobile magari con funzioni multimediali, ma al contempo la povertà misurata in termini relativi, cioè contestualizzati e socialmente comparabili, si estende a macchia d’olio e attrae, a precipitazione, profili sociali che storicamente ne erano indenni.
MS
(continua – la prima e la seconda parte sono del 25 e del 26 dicembre 2010)

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Un patto scellerato – parte seconda

4) Ancor più fortemente ponesi, appetto a svolgimenti siffatti, il tema della legittimazione della rappresentanza sindacale.
Nell’allegato 1 al patto di Mirafiori del 23 dicembre, sotto il titolo “Diritti sindacali”, si dispone che le RSA di cui all’art. 19 della Legge 300/1970  (“Statuto dei Lavoratori”) possano essere costituite dalle associazioni firmatarie. Poiché il comma 1 dell’art. 19 predetto fu abrogato nel 1995 all’esito del relativo referendum, da allora non più (anche) i sindacati maggiormente rappresentativi sul piano nazionale come nell’originaria formulazione della norma, ma quelli soli che siano firmatari di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, indipendentemente dal numero degli associati, possono costituire proprie rappresentanze in questa.
Fin qui poco di nuovo, apparentemente, ma non si dimentichi che il patto suddetto, secondo previsione, dovrà generare un contratto collettivo di primo livello, quindi sostitutivo per ogni effetto dell’attuale CCNL, da applicarsi a Mirafiori.
Non essendovi obbligo giuridico, salvo casi particolari, di applicare ai rapporti di lavoro subordinato uno specifico contratto collettivo, ne deriva sul piano generale che qualunque datore di lavoro voglia legittimare, a propria convenienza, sindacati più o meno fittizi indipendentemente dalla rappresentatività effettiva degli stessi, potrà convenire con essi accordi ad hoc eludendo nella sostanza la previsione di cui all’art. 17 della stessa Legge 300/1970 circa i sindacati di comodo “È fatto divieto ai datori di lavoro ed alle associazioni di datori di lavoro di costituire o sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di lavoratori”. Finora questa è stata un’ipotesi di scuola, comunque fallita nei pochi casi nei quali fu sperimentata, con in campo il precedente di Mirafiori potrebbe però concretizzarsi in misura impredicibile e anche in forme assai peggiori dell’archetipo stesso.
Va rammentato, per inciso, che il sig. Sacconi bramerebbe rimpiazzare l’ancora vigente “Statuto dei lavoratori”, succitato, con uno “Statuto dei Lavori” di nuova fattura finalizzato tra l’altro a “promuovere e sostenere il ruolo delle parti sociali, degli enti bilaterali e della mutualità” (intervista al Corriere della Sera del 20 maggio 2010), il che fa ben capire a cosa punti costui. Ma pur nella vigenza delle attuali norme, come si è accennato, il patto di Mirafiori per il suo stesso rilievo potrà fare scuola presso quei datori privi di scrupoli (i cialtroni nei rapporti di lavoro si trovano tanto tra i prestatori quanto tra i datori, ma l’asimmetria della potenza rispettiva fa sì che siano questi ultimi a provocare il maggior danno) che ancora ad accordi di comodo e/o a “sindacati” ben accomodanti non avevano pensato, o che forse non avevano il coraggio di agire in tal senso.
La diffusione di una squallida minuteria sociale, potenzialmente costituita da piccoli sindacatini fasulli costituiti ad hoc onde smerciare a poco prezzo, qua e là, “accordi collettivi” altrettanto ad hoc, ben si coniugherebbe, d’altronde, coi caratteri antropologici negativi insiti in comportamenti che ahimè sono assai largamente praticati nel paese.
A livelli più alti, invece, quale possa essere in termini di prebende, di sottogoverno clientelare e di ristoro economico, il contraccambio strategico di una collaborazione sociale che traligni in collaborazionismo, risulta chiarissimo dalle parole dello stesso sig. Sacconi, surriportate.
MS
(continua – la prima parte è del 25 dicembre 2010)

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Un patto scellerato – parte prima

Pur senza entrare nel dettaglio del patto, sottosegnato il 23 dicembre a Torino tra il sig. Marchionne e alcune associazioni minoritarie dei prestatori di lavoro subordinato per il nuovo autonomo sistema contrattuale da applicarsi allo storico stabilimento di Mirafiori, la rilevanza di un tale spunto m’induce a formulare qualche breve e schematica osservazione d’emblée.
1) Nel sistema FIAT, che da impresa familistica assai spesso condizionò in negativo le sorti d’Italia, il passaggio in comando dall’onomastico Agnelli all’Elkann emblematicamente segnò il definitivo passaggio ideologico, sanzione di quello strutturale, all’àmbito del mercatismo globalista.
Un àmbito dove gli affari, notoriamente, sono intrisi di finanza ambigua e gestiti per conto degli “investitori” da una casta di burocrati funzionali cosiddetti “Manager”, che poco o punto ha in comune con quello del capitalismo classico, industrialista e padronale.
In quest’ultimo, infatti, anche nelle fasi e nei contesti di massima brutalità sociale la proprietà solitamente era identificabile e anzi, investendo denari nonché impegno personale, si assumeva in proprio i relativi rischi senza scaricarli, in forme diverse, sulla collettività onde lucrare, a volte per mezzo di delittuose ingegnerie, profitti più o meno cartacei, ma tanto ingiustificabili quanto immani.
Non è da aspettarsi, in ogni modo, che il sistema FIAT restituisca allo Stato le enormi risorse che quest’ultimo per decenni gli ha graziosamente elargito a spese dei cittadini contribuenti.
2) Il sig. Marchionne, già incensato dal sig. Bertinotti molto applaudito alla festa milanese di “Liberazione” nel 2006 quando proclamò “Dobbiamo puntare ai borghesi buoni”, sponsorizzazione questa già di per sé foriera di sciagure, è ben rappresentativo della casta di burocrati funzionali suddetta, cosmopolita e dunque senza patria, percettrice di emolumenti spropositati per essere integralmente dedita al profitto dei cosiddetti “investitori” senza  molto riguardo al resto. Secondo la tabella pubblicata sul n. 49 de L’Espresso, per inciso, il costo annuale del sig. Marchionne risulterebbe  di 4.782.000 euro, centotrentatrè volte la media individuale dei circa trentaseimila dipendenti.
3) Alcuni soggetti, legittimati più che altro dall’interessato riconoscimento di quella che teoricamente dovrebbe essere la loro controparte, col patto del 23 dicembre scambiano principi essenziali (e garanzie normative, e.g. deroghe al D. lgs. 66/2003 in materia di riposi) con qualche soldo in più, palliando tanto mercato con la tiritera degli investimenti che permetteranno la sopravvivenza di Mirafiori. Penosa quanto inutile sceneggiata: il fetore dello Zeitgeist ancora in auge e delle dilaganti, conclamate sue infezioni opportunistiche è tale da mettere automaticamente in ridicolo qualunque alibi siffatto.
Certo è che vedere come uno storico sindacato, fondato da Giulio Pastore e guidato, tra gli altri, dal probo Pierre Carniti e dall’onesto Savino Pezzotta, sia precipitato ai livelli della sua conduzione attuale suscita, prima che ripulsione, profonda tristezza. Soprattutto al pensiero dei tanti che vi dedicarono, disinteressatamente, una vita d’impegno.
Degli altri soggetti figuranti non merita dire.
MS
(continua)

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Il ridicolo al potere #1

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